Sulla via del ritorno a Delhi, la vista di elefanti bardati a festa si era mescolata a quella dei numerosi ragazzini in mezzo alla carreggiata nonché degli uomini di fede sdraiati placidamente tra le macchine a intasare la superstrada. Scimmie, cani, mucche pascolavano sereni in mezzo al caos di quel traffico senza regole, senza criterio, senza senso, gonfio fino all’inverosimile e apparentemente privo di direzioni di marcia.
Giunti per la seconda volta nella capitale – non molto diversa quanto a confusione, anzi forse più esasperante e convulsa per via dei taxi, le guide turistiche, i risciò –, una volta visitata la tomba di Gandhi, il Rajpat e l’India Gate, si erano fermati davanti all’impressionante spettacolo delle bettole fuori dal Tempio, con il pesce e il riso fritti tra fumi maleodoranti di carne e vapori di olio bollente. Alberghi a una stella, bancarelle, biciclette, avevano complicato quello scenario già saturo di fili della luce, gente che chiedeva l’elemosina, neonati esposti nudi a impietosire i turisti di passaggio. Stanchi di quella sovraesposizione di corpi, immagini, colori, odori, allora, avevano scantonato alla prima curva e si erano rifugiati in un parco con monumenti indù e sentierini curati per il jogging: lì avevano stappato lo champagne di arrivederci comprato sulla via, prima di tornare in albergo per l’ultimo, più intimo, saluto indiano.

Rimasta sola, al rientro, Alice aveva pensato e ripensato al giro in Asia e a quell’invito a dir poco singolare: telefonata morbida in cui il Publisher le aveva parlato di sé – e delle sue passioni (Keats) –, recall il giorno dopo giusto per sondare il terreno, sms con l’indirizzo dell’agenzia in cui ritirare il biglietto con destinazione Delhi (quando lei gli aveva fatto presente di non potersi permettere l’India, lui l’aveva subito dirottata sull’agenzia di fiducia, in puro Cenerentola style).
Anche i giorni precedenti la partenza le erano tornati in mente, vividi e attuali come fossero ieri: a Venezia, dove era andata per trascorrere una breve vacanza con il figlio, proprio a Ernesto, prevedibilmente incuriosito da quel viaggio annunciato all’improvviso e da quell’enigmatico, misterioso personaggio, aveva accennato a un “indiano”, nulla più. Testimone delle lunghe telefonate intercontinentali con cui Fazi (subito ribattezzato Jaipur) aveva cercato di far capire ad Alice che poteva fidarsi (la paura che lei ci avesse ripensato aveva preso il sopravvento), il ragazzino si era fatto la sua idea rispetto all’uomo che faceva di nuovo sorridere la mamma. In quei giorni passati nella città lagunare, Alice non dormiva e non mangiava più tanto era felice e in ansia per la partenza, per l’incertezza dell’avventura e un tipo così diverso da quelli frequentati finora – quando in famiglia aveva annunciato «Vado in India», erano rimasti tutti molto colpiti da una figura come quella, abituati ai suoi frequenti (quanto astrusi) cambi di partner: si aspettavano il solito barista, chauffeur o al massimo skipper, non certo un editore e per di più laureato!
Al rientro, dunque, quando Ernesto, dodici anni, di fronte alle foto dei due ormai legati viaggiatori, aveva esclamato: «Mamma, ma Jaipur non è indiano!», chiosando candidamente «…sembra quel cantante… quello con i capelli lunghi e gli occhiali», una volta capito che quel cantante era Al Bano, il brivido per quel personaggio straordinario si era un po’ attenuato, anche se l’entusiasmo per averla scampata bella (sarebbero davvero potuti essere dieci giorni d’inferno fra imbarazzo e mutismo) restava – ed era – un pensiero a dir poco elettrizzante.